Storia
Il primo documento che menziona il nome di Pratola (in loco Pratulae) è un contratto agrario del 997 del Chronicon Volturnensis. Nel 1294 Carlo II D’Angiò, re di Napoli, donò a Pietro da Morrone il territorio del Castrum Pratulae con tutte le pertinenze e chiese. Del legame con i Celestini restano numerosi segni dallo stemma (un serpente attorcigliato alla croce) collocato sull’arco D’Angiò per accedere al centro storico (conosciuto come “dentro la terra”) alla chiesa dedicata a San Pietro Celestino.
Il nome Pratola sembra avere connessioni con la parola prato nel senso di terreno coltivato a foraggio secondo un documento del 1301. La Valle Peligna prende il nome dal greco peline (fangoso) per la presenza di un vasto lago nella conca in età preistorica. L’aggettivo peligno viene usato con orgoglio da Ovidio quando dice di sé Pelignae dicar gloria gentis ego (io sarò detto la gloria della gente peligna). Dal 1863, per regio decreto, il paese ha assunto il nome di Pratola Peligna.
La seconda guerra mondiale ha fortemente coinvolto Pratola a causa della presenza di un dinamitificio oggetto di pesanti bombardamenti aerei e dalla presenza di soldati alleati, prigionieri nel vicino campo di concentramento n.78 di Fonte d’Amore, fuggiti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e ricercati dai tedeschi che fucilarono alcuni civili accusati di aiutarli.
Tradizioni
Madonna della Libera
Secondo la leggenda, durante la terribile peste del 1456, un contadino sognò la Madonna liberatrice che gli annunciò la fine dell’epidemia. Svegliatosi l’uomo scorse tra le macerie della chiesa dove si era rifugiato un quadro raffigurante la Vergine ed esclamò “Madonna, liberaci!”. Dopo la fine dell’epidemia il quadro, trasportato al paese con un carro trainato da buoi dopo una disputa con i vicini sulmonesi, venne posto all’interno di una nuova chiesa appositamente costruita e divenne oggetto di venerazione.
La festa si celebra ogni anno la prima domenica di maggio e l’organizzazione è affidata ad un comitato di laici , rinnovato ogni anno, con la mastra a cui è affidata la guida delle cercatrici che hanno il compito di raccogliere le offerte. I festeggiamenti iniziano il venerdì con l’arrivo della compagnia di Gioia dei Marsi, un gruppo di pellegrini che compie a piedi la via tra i due paesi attraverso sentieri e valichi montani. All’entrata del santuario viene compiuto il rito dello strascino cioè il percorso in ginocchio fino all’altare. Il sabato c’è l’esposizione della Madonna mentre la domenica la processione per le vie del paese.
Nel 1851, il vescovo sulmonese Mario Mirone benedisse la prima pietra del santuario che ancora oggi domina il paese. Tutto il popolo pratolano contribuì al progresso dei lavori sull’esempio dato da don Domenico Santilli, parroco dell’epoca, che dalle falde del Morrone trasportò a spalle un pesante sasso fino a Pratola.
La facciata neoclassica è ornata da quattro monumentali statue e dotato di 10 altari inseriti in cappelle. Una di queste venne destinata alla custodia dell’immagine miracolosa della Madonna della Libera che vi fu collocata nel 1855 dopo la demolizione della chiesa originaria. Teofilo Patini realizzò il quadro di S. Antonio da Padova, mentre Amedeo Tedeschi (nativo di Pratola) dipinse i medaglioni della volta centrale.
Il Santuario è stato lesionato dal terremoto del 6 aprile 2009 causando l’annullamento dei festeggiamenti. Dal 13 aprile 2019 è oggetto di lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza. Anche l’edizione 2020 è stata annullata a causa della pandemia mondiale che ha costretto milioni di persone alla quarantena forzata ma i pratolani non hanno rinunciato a mostrare la loro devozione addobbando il paese con i colori e i simboli mariani e le parrocchie hanno adottato soluzioni digitali come dirette televisive e sul web per permettere a tutti di assistere a una celebrazione ridotta ma di uguale solennità.